La Commissione pubblica qui con immenso piacere e con grande commozione il saggio sull’Umorismo che Angelo Pupino ha scritto negli ultimi mesi di vita, mosso dalla ferma volontà di dare il proprio contributo scientifico all’Edizione Nazionale. La necessaria introduzione è del nostro Segretario e suo grande amico, il Prof. Aldo Morace.
Era da qualche anno ― poco dopo che le sue condizioni di salute erano peggiorate, tanto da costringerlo a casa ― che Angelo manifestava la volontà di pubblicare un suo contributo pirandelliano sul sito dell'Edizione Nazionale, di cui sino all’ultimo è stato Presidente, autorevole per gli studi che aveva prodotto rinnovandone sostanzialmente l'ottica di lettura, e umanamente amato per la signorilità con cui adempiva il suo incarico e per l'empatia che sapeva suscitare, riuscendo come un grande allenatore a ricavare il meglio della sua squadra.
Ma la salute era andata via, tra stupefacenti riprese, quando ormai la situazione sembrava senza speranza, e puntuali peggioramenti. Continuava, però, a parlarmi sempre di questo contributo, la cui stesura sentiva ineludibile per onorare la sua carica di Presidente e come frutto testamentario di una prestigiosa carriera di studioso, senza mai rivelarmi il soggetto che aveva pensato e a cui diceva di lavorare nei giorni in cui la malattia gli consentiva di farlo.
Non credevo più che potesse portare a termine il compito che si era prefisso. Vedevo, sentivo che le ore di lavoro divenivano sempre più rade, come anche la lucidità che uno studioso del suo calibro deve avere per produrre uno studio degno della sua fama. Perché Angelo è stato davvero uno studioso di grande respiro, raffinato e profondo, avendo come suoi autori prediletti del secolo scorso D'Annunzio e, soprattutto, Pirandello.
Lo sentivo telefonicamente quasi ogni settimana: un colloquio di intensa amicalità a cui nessuno dei due voleva rinunciare. Con felicità totale da parte sua e mia, circa un mese fa mi ha annunciato che aveva terminato il suo lavoro, imperniato sul ripensamento di ciò che aveva scritto sull’umorismo pirandelliano. Voleva ― come di consueto ― che lo leggessi per un parere non amicale, come d'altronde facevamo sempre reciprocamente, e per apportare qualche correzione, da evidenziare in giallo perché potesse accoglierla o meno.
L'ho fatto subito con stupore, con meraviglia. Leggevo un testo molto complesso e importante, che non credevo fosse in grado di produrre: era riuscito a scriverlo, rielaborando ciò che aveva prodotto nel corso di tanti anni, ma anche immettendovi nuove chiavi di lettura, nuovi riferimenti, nuovi apporti venuti dalla critica più recente (e non).
Gli telefonai subito: ero incredulo e basito. L'ho gratificato esprimendogli tutta la mia ammirazione per questo frutto ormai inatteso, che sentivamo essere l'ultimo; e gliel’ho rimandato, con piccole correzioni e integrazioni debitamente segnate in giallo.
Due settimane fa mi telefonò per dirmi che non ce la faceva a rivedere il saggio, alla luce dei miei interventi, e a licenziarlo. Mi pregava di curarlo io e di pubblicarlo sul sito della Edizione digitale. L'ho fatto, preannunciando che sarei andato a trovarlo (come facevo ogni volta che ero a Roma) in occasione della seduta della Commissione per l’Edizione Nazionale, poi avvenuta il 21 settembre, nel corso della quale avrei dato notizia dell'avvenuto varo del suo studio, consegnandolo alla pubblicazione, come poi è avvenuto.
La visita è stata dolorosa: Angelo era ormai in gravissime condizioni fisiche, ma lucido, tanto lucido da poterne misurare l’irreversibile peggioramento e da poter dialogare, sia pure con fatica. Gli sintetizzai la seduta, come di consueto da me coordinata in sua assenza, e della quale, vincendone la resistenza, gli avevo letto l'ordine del giorno per avere la sua approvazione. L’Edizione Nazionale era il suo orgoglio: alla sua realizzazione si è speso totalmente, anche quando le malattie lo avevano confinato in casa. E subito gli comunicai che avevo dato notizia del suo scritto e gli diedi notizia della felice sorpresa che tutti i membri avevano espresso, dopo aver ascoltato le mie ammirate anticipazioni.
Faceva fatica a restare lucido e a prestare attenzione. Mi accorgevo di questo, ma intuivo che non l'avrei più rivisto e, stupidamente, continuavo a rimanere vicino al suo letto e a parlargli. Poi mi sono congedato e le sue ultime parole sono state un saluto per la persona a me più cara dopo la perdita di mia moglie: una ferita che continua più che mai a sanguinare, malgrado che il tempo della lontananza, soltanto fisica, continui ad accumularsi.
Poi il messaggio di Violina, la moglie amatissima, che ha illuminato l'ultimo trentennio della sua vita e che in questi quasi tre anni di sofferenza sì è data a lui con amore totale: «Il mio Angelo è andato via». Alle sette e mezza del 25 settembre. Era volato via da tutti noi, ma soprattutto da me, perché era il mio amico più caro.
Rimangono i ricordi, i refoli improvvisi che ti colgono ogni giorno, più volte al giorno: il calore di un'amicizia quarantennale, nata all’ombra dello stesso padre elettivo, Gianvito Resta, e vissuta senza mai un contrasto, una nube, come troppo spesso avviene invece nel mondo accademico.
Rimangono le sue tantissime pagine critiche, sempre raffinatamente scritte, come era anche il suo personaggio, elegante e affascinante. Posso dire senza amplificazioni che Angelo ha attraversato la storia ultima dell’italianistica, imprimendo un segno profondo in tutti i soggetti che ha studiato.
Rimane tutto questo. Ma anche un vuoto: incolmabile per chi gli è stato più vicino. Per quasi una vita.